Il Cavallo Napolitano
La storia del favoloso Cavallo Napolitano, una razza quasi dimenticata ma che ha ricevuto nuovo vigore grazie alla passione di un allevatore di Piano di Sorrento
di Lucio Sandon
Figlio della notte e della luce, del mistero e della verità. Signore del tempo, del vento e del desiderio che, secondo la leggenda, porta sulla groppa la parte più nascosta dell’animo umano. L’uomo ha fatto di questo animale il suo compagno infaticabile di conquiste e avventure, il suo mito, il suo destino. La sua storia è unica, come unico è il rapporto con gli esseri umani, che affonda le radici nell’aura del mito.
La Campania Felix, corrispondente a parte del territorio delle province di Caserta e Napoli, attraversata dal fiume Volturno, è racchiusa tra il mare ed un arco composto dai monti del Matese, del Sannio e dell’Irpinia. Quest’area, soggetta prima alla dominazione etrusca e poi a quella romana, è stata da sempre teatro di grandi allevamenti equini.
I primi greci che sbarcarono sulle coste campane, intorno all’VIII secolo a.C. furono talmente colpiti dalla robustezza dei cavalli locali che raccontavano di averli visti camminare sulla lava ardente: li adoravano con il nome di Ennosigaios, scuotitore di suolo. Questo figlio di Nettuno aveva il potere di far tremare o placare la terra.
Dopo qualche secolo, gli Etruschi introdussero nell’Italia meridionale l’uso del carro da guerra e da corsa. Il cavallo degli Etruschi snello ed elegante, si distingueva nettamente con la sua altezza di 150 cm al garrese, dalle razze occidentali del medesimo periodo. Tali esemplari si irrobustirono negli incroci con i cavalli locali.
Con l’arrivo dei romani, che introdussero nel territorio i resistentissimi e possenti cavalli berberi, avvenne il connubio felice fra questi soggetti e gli etrusco-campani, longilinei e leggeri. Il bel cavallo napoletano, poderoso e nel contempo leggiadro, cominciò allora a delinearsi, e la fama di questi animali, legata alla loro resistenza e fierezza fu tale che Annibale potrebbe essersi fermato a Capua anche per procurarsi i migliori cavalli disponibili in Italia.
Proprio da Capua venivano i cavalli bianchi cavalcati dai consoli romani nei Trionfi.
A Napoli, nell’odierna Piazza Riario Sforza, dove ora c’è la guglia di San Gennaro, fino al Medioevo c’era la statua di un cavallo sfrenato di bronzo che si diceva fosse stata scolpita da Publio Virgilio Marone, all’epoca considerato un mago più che un poeta. Lì si portavano gli animali malati, ornati di ghirlande di fiori e tarallini.
I cavalli per guarire, dovevano girare tre volte intorno alla statua, che però venne fusa perché tali riti pagani erano invisi alla Chiesa. Il corpo del cavallo servì per forgiare le campane del Duomo, ma si racconta che quando suonano, tendendo l’orecchio si sente ancora il nitrito del cavallo di Virgilio.
La verità è un po’ diversa: come affermò già Giorgio Vasari, la testa è da attribuire al genio di Donatello, e dal 2012 l’attribuzione al maestro fiorentino è ufficiale. La scultura viene custodita dal 1809 nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ma per secoli aveva dimorato nel cortile dello storico Palazzo Carafa in via San Biagio de’ Librai, da cui trasse nome.
In origine la testa di cavallo era stata voluta da re Alfonso d’Aragona, che voleva una scultura simile a quella che Donatello stava realizzando a Padova per il Capitano Erasmo da Narni detto il Gattamelata.
Il sovrano, colpito della potenza espressiva della scultura, voleva esporla al centro dell’arco superiore del portale del Maschio Angioino. Il re riuscì a mettersi in contatto con Donatello, ma l’opera si protrasse per anni, nei quali morirono sia il re che il suo intermediario con l’artista, e il lavoro per la realizzazione della testa di cavallo venne sospeso.
Solo nel 1471 durante il soggiorno di Lorenzo il Magnifico a Napoli, il signore di Firenze ordinò a Donatello di riprendere la scultura del cavallo, al fine di donarla alla città. Morto Alfonso I, la testa venne donata al conte Diomede Carafa, che tenne l’opera per sé in ricordo del suo sovrano.
La selezione vera e propria del cavallo napolitano è fatta risalire nel XIII secolo a Carlo I d’Angiò il quale, vista l’elevata qualità dei cavalli locali, non ritenne opportuno migliorarli con l’introduzione di sangue di altre razze.
Nel ‘600 il nobile cavaliere partenopeo Giovan Battista Caracciolo non risparmiava le lodi al cavallo napoletano: «Sono di buona taglia e di superba bellezza. Con la loro obbedienza incredibile seguono la musica, e si mettono quasi a danzare spontaneamente.»
Del cavallo napoletano si perdono le tracce nei primi anni del Novecento.
Solo a partire dal 1980, per l’illuminata opera di un allevatore, la razza ha ricevuto nuovo vigore, tanto da ottenere l’attivazione del relativo Registro Anagrafico.
A Piano di Sorrento, Giuseppe Maresca ha voluto sfidare il tempo e la natura, e ha creduto nella resurrezione di una razza ormai quasi estinta.
Dopo aver consultato il registro dei cavalli della Scuola di Vienna, Maresca scoprì che nel 1790 i monaci certosini napoletani avevano mandato alcuni dei loro migliori stalloni in dono all’imperatore d’Austria.
Siccome questi teneva per sé solo gli esemplari bianchi o grigi, i cavalli neri venivano ceduti all’estero dal governo austriaco.
Rintracciato in Serbia l’ultimo stallone superstite della razza Cavallo Napolitano, senza far rumore, nell’indifferenza generale e nell’assenza più assoluta di aiuti, anzi lottando contro la derisione e l’incredulità, l’allevatore Giuseppe Maresca ha operato il miracolo, e riportato a Sorrento il Cavallo Napolitano.
Maria Franchini scrittrice, giornalista, traduttrice, appassionata di storia napoletana e cavalli, insieme a Giuseppe Maresca ha scritto un interessante volume.
Il libro sul cavallo napoletano e la sua incredibile storia, purtroppo è disponibile solo in francese,: La fabuleuse aventure du cheval napolitain, Zulma ed.