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Il brigante Giosafatte Talarico

di Michele Di Iorio

Nell’Italia meridionale i briganti erano presenti sin dal Medioevo. Era un fenomeno criminale che nel 1799 e dal 1806 al 1815assunse la connotazione di resistenza filoborbonica divenendo di massa.

Era comunque malavita organizzata, sebbene circondata sempre da un certo alone romantico: molte le bande che infestarono il Molise, Puglia, Calabria e parte degli Abruzzi..

Fu in Calabria che si manifestò il caso di un famoso brigante, un po’ fuorilegge e un po’ Robin Hood, Giosafatte Talarico. che rubava ai ricchi per donare ai poveri.

Nato da famiglia contadina il 20 marzo 1807 a Panettieri, un villaggio della provincia di Cosenza,  Giosafatte Talarico, studiò nella scuola parrocchiale e quindi  Diritto, Teologia, Storia e Filosofia al Seminario Vescovile di Cosenza, con notevole profitto. Nel 1820 abbandonò gli studi seminaristici per studiare farmacologia, divenendo praticante del farmacista don Gaetano Rimola. Quindi si iscrisse all’Universita di Napoli.

Una domenica di fine novembre del 1823 ritornò al suo paese natale per affrontare il signorotto locale don Luigi Sperandei, colpevole di aver violentato sua sorella Carmela. Lo minacciò perché sposasse la ragazza, ma inutilmente: infuriatosi alle risposte beffarde dell’uomo, lo colpi  con un coltello davanti la parrocchia del paese, uccidendolo.  Dopo aver pulito l’arma dal sangue strofinandola sul viso del morto, si diede alla macchia riparando sulla Sila, dove entrò nella banda del brigante Boia, che aveva combattuto contro i francesi.

L’indole cavalleresca e il rispetto per i religiosi di Giosafatte Talarico non poteva uniformarsi a quella del feroce capobanda: durante una rissa lo uccise con il suo stesso coltello. Talarico assunse il comando dei 12 briganti, quasi tutti ex pastori e braccianti agricoli.

La banda prese a taglieggiare signorotti e prepotenti, nobili, borghesi autoritari e ricchi: metà del bottino veniva dato ai poveri dei vari villaggi. Inoltre alle ragazze indigenti  venivano  fornite doti di maritaggio. Giosafatte impose delle regole severe: non si dovevano uccidere coloro che venivano rapinati ed era proibito molestare e violentare le donne.

Amante del bel sesso ma senza eccedere, fu la vittima designata di varie imboscate, ma riuscì sempre a farla franca, catturando gli aggressori e mettendoli in ridicolo: li legava agli alberi lasciandoli in mutande.

Giosafatte Talarico si dimostrò più volte uomo di principio:  nel 1830 una sera si presentò da solo a casa del parrocco Giuseppe Riparelli e lo costrinse a resituire i 500 ducati estorti con inganno alla contadina Filomena: li restituì alla donna come dote, la fece sposare e trasferire a Palermo.

Gli diedero la caccia guardie urbane, doganieri, guardie forestali e gendarmi al comando del colonnello borbonico di Gendarmeria Francesco Saverio Del Carretto, ma non fu mai preso e così la sua banda, protetti come erano da religiosi e dal popolo.

Nel 1831 la taglia per la sua cattura aumentò da 1000 a 2000 ducati. Ad inseguirlo in quel tempo erano gli uomini del maggiore Giuseppe De Liguori del comando di Gendarmeria, Intendente regio di Catanzaro e di Crotone, ma  era imprendibile.

Talarico continuava ad aiutare le persone in difficoltà: protesse e rifornì di denaro e viveri gli operai e forzati che lavoravano alla ricostruzione del terremoto calabrese dell’8 marzo 1832.

La leggenda del brigante Talarico cresceva: era il paladino non solo dei poveri, ma anche dei vecchi, donne e bambini, persino degli di animali maltrattati!..

Era anche temeraio: nel 1835 andò al teatro di Cosenza per assistere travestito da nobile all’esibizione del famoso soprano Caterina Longoni, passando davanti al nuovo Intendente regio di Catanzaro, colonnello Zola. L’Intendente era considerato esperto di briganti, essendo stato sandefista nel 1799 e poi tra i guerriglieri calabresi dal 1806 al 1815.

Quella sera Talarico si mescolò agli invitati alla cena tenuta dopo la rappresentazione, rapì la Longoni davanti a tutti e  la portò con sé sulla Sila per 8 giorni.

Ai gendarmi del colonnello Zola si unirono quelli del maggiore Salzano di Crotone, ma anche così la caccia all’uomo non ebbe esito. Allora Del Carretto portò la taglia su Talarico a 6mila ducati, più una promozione cavalleresca e avanzamento di grado per i militari.

Il maresciallo d’Alloggio della Gendarmeria di Cosenza Francesco Spezzaferri, grasso e ubriacone ma che era stato il terrore di molti briganti e camorristi, fu ingolosita da questa ricompensa: con 5 gendarmi si posizionò nella taverna di Mico il Guercio, vicino una vecchia torre abitata dalla fidanzata di Talarico, una bella e brava giovane orfana di padre. Mentre era a tavola Spezzaferri fu avvicinato da un eremita, in realtà Giosafatte, che lo mise fuori combattimento insieme con i suoi soldati. Poi li legò agli alberi dopo averli spogliati di armi, orologi, anelli, soldi e vestiti lasciandoli seminudi e con i capelli rapati a zero …

Il colonnello Zola e il maggiore Salzano gli inviarono contro un reparto speciale di gendarmi al comando del tenente siciliano Salvatore Maniscalco, ma fu tutto inutile: era una vera e propria volpe e riusciva a sfuggire sempre alla cattura.

Il re Ferdinando II oltre ai gendarmi inviò contro Talarico persino reparti dell’esercito. Tutte le Forze dell’Ordine erano in costante stato d’allarme.

Nel marzo 1846 venne, accerchiato dagli uomini al comando del capitano Galluppi: anche questa volta riuscì a fuggire, lasciandosi dietro 3 compagni e 8 gendarmi morti, e Galluppi gravemente ferito, che morì di lì a poco.

A questo punto il Maresciallo di Campo, generale di divisione don Nicola duca de Sangro, intendente regio di Cosenza, propose al ministro Del Carretto di promettere salva la vita a Talarico: sarebbe stato inviato al confino in un’isola del Regno, accompagnato dalla sua fidanzata e persino mantenuto dal governo.

Il ministro, sentito il re, accettò la proposta. Su controproposta del Talarico la garanzia, tramite il suo confessore e l’avvocato barone Barraco, fu estesa ai 9 compagni di banda .

Giosafatte Talarico si consegnò a Cosenza: era a cavollo con i suoi briganti. Venne scortato dai gendarmi del maggiore Salzano fino a Salerno, dove fu imbarcato su una fregata da guerra. Sbarcato il 29 giugno 1846 a Ischia Porto e venne alloggiato in una casa di pescatori, ricevette 6 ducati mensili di rendita vitalizia per sé e per i suoi uomini. Il confino era a vita.

Nel maggio 1860 Talarico,  su proposta segreta del capo della Polizia borbonica in Sicilia Salvatore Maniscalco, fu prelevato da una fregata e sbarcato a Palermo. Trasvestito da garibaldino, il suo compito era uccidere Garibaldi. Raggiunto il dittatore a Palazzo Reale, non lo fece, però: svegliatolo, gli offrì i suoi servigi.

Non sappiamo come andarono le cose, ma il brigante Giosafatte se ne tornò a Ischia, dove visse tranquillamente con sua moglie.

Invano nel 1861  il deputato Luigi Settembrini tentò di  farlo processare, ma il governo sabaudo preferi non trovarsi un altro brigante tra i piedi. Ci riprovò il deputato e scrittore Francesco Mastriani nel 1863: propose, almeno, di far sopsendere i benefici, ma il govenro ritenne che non c’erano fatti attuali di delinquenza reiterata per proccessarlo.

Giosafatte Talarico morì serenamente ad Ischia a più di ottant’anni. La sua romantica leggenda continua.

 

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