Genesi di Salgado al PAN, la recensione della mostra
di Renato Aiello
È passato giusto un anno dall’ultimo grande appuntamento con la fotografia naturalistica e con i reportage dal mondo al Palazzo delle Arti di Napoli, quella mostra di Steve McCurry che è stato un grande successo di pubblico e partecipazione. Ora a raccogliere il testimone ci pensa un fotografo forse ancora più grande dell’americano McCurry, un vero umanista della macchina fotografica: Sebastiao Salgado sarà esposto al PAN fino al 28 gennaio 2018 e il suo lavoro Genesi, durato otto anni e che abbraccia continenti e popoli dall’Artico all’Amazzonia, è davvero degno di nota.
Un appuntamento imperdibile per appassionati e fotoamatori, forse anche più interessante dell’esposizione degli scatti di McCurry, allestiti su un unico piano e in una particolare scenografia a scale che ha lasciato perplesso più di un visitatore. Genesi con le sue fotografie popola ben due piani della struttura museale, ed è sicuramente un progetto di più ampio respiro, ragionato ma allo stesso tempo pieno di cuore e passione che traspaiono appieno nelle sale e nelle varie sezioni in mostra.
Un allestimento ben curato e ordinato, ad opera di Lélia Wanick Salgado, che si avvicina di più all’elegante trittico femminile dedicato a Helmut Newton mesi fa, anche se lontano per poetica e cifra stilistica. Per l’artista e poeta visivo Salgado, brasiliano di nascita e da sempre legato alla sua Amazzonia, dopo una vita di grandi lavori e reportage che hanno fatto la Storia, Genesi rappresenta un atto d’amore verso quella natura troppo martoriata nel suo paese.
Un canto malinconico e struggente che si fa bianco e nero, elegantemente contrastato ed efficace nel ritratto del pianeta e dei suoi abitanti più a rischio, le specie animali. Di grande impatto risultano infatti i racconti delle terre aspre del Nord, con le rocce e i ghiacci artici affilati nelle loro geometrie oblique e la poesia delle colonie di uccelli disposte sulle bisettrici fotografiche, schiacciati e avvolti allo stesso tempo da una natura che se fa apparire piccoli loro, dovrebbe incutere timore e rispetto soprattutto nell’Uomo.
Non è un caso se i volti e le espressioni di scimmie e gorilla africani, o le zampe di rettili risultino quasi umanizzati, esaltati e cristallizzati dalla texture e dalla cura dei dettagli in forme e arti umani. Persino lì dove cresce una pianta, esempio raro citato nella didascalia di un germoglio successivo a un’eruzione, le pieghe e le increspature del terreno vulcanico assomigliano a mani che stringono o si muovono sotto un manto liquido.
Non fanno eccezione quindi le dune del deserto e le montagne del Grande Nord, che si potrebbero accostare ai fianchi o alle curve del corpo di un corpo gigantesco, che si nutre e respira incessantemente sotto cieli di nuvole e luce in costante movimento.
È il gigante addormentato, e purtroppo anche malato, del nostro pianeta, la dea Gaia tanto cara agli antichi greci. Inevitabile si rivela allora il tocco scultoreo dei ritratti degli indios, uno dei quali immortalato tra le felci in tutta la sua tensione muscolare, una nudità eroica che emerge dai motivi arborei alla maniera dei bassorilievi sulle metope dei templi ellenici.
Gli indigeni del mondo, superstiti di tribù dell’Africa e del Pantanal ai confini della nostra cosiddetta civiltà, la stessa che condanna da 100 anni il globo a una febbre climatica in costante ascesa con l’effetto serra, sono i testimoni dell’alba dell’uomo, la stessa genesi del titolo di questa personale. Figli di una visione romantica in cui echeggia il mito del buon selvaggio di Rousseau, eredi di preistoria mai interrotta e che sarebbe bene preservare e proteggere il più a lungo possibile.
Foto di Valerio Flavio De Marco