Il Racconto, Dal profondo nordest al sud
di Lucio Sandon
Aveva dieci anni e veniva dalla provincia profonda, del più profondo nordest.
Fino a quel momento, la cosa più trasgressiva di cui aveva avuto esperienza era stata qualche bestemmia masticata sottovoce nel cortile dell’oratorio dei Salesiani.
Ora si trovava nel bel mezzo del mercato di Forcella, gli occhi spalancati per la meraviglia, a guardare ragazzi poco più grandi di lui che gli offrivano autoradio come nuove e stecche di Marlboro, donne che gli facevano l’occhiolino invitandolo ad avvicinarsi, e lui non ne capiva il motivo e se ne allontanava timoroso, anziani che vantavano di possedere intere raccolte di foto pornografiche a basso prezzo, e poi cataste di frutta e verdura dai colori abbaglianti: dal rosso acceso dei pomodori appesi in grosse pigne di fuoco, al giallo intenso e inebriante delle percoche. Polpi che sembravano sonnecchiare pigri dentro basse vasche di acqua di mare, moto che sfrecciavano fendendo la folla a colpi di tromba, e la folla che si apriva docile per dar loro strada, ricoprendoli però di improperi incomprensibili. Bancarelle che traboccavano di vestiti, borse, guanti, sciarpe, cappelli ed ogni altra cosa commerciabile, in quantità incommensurabile, così come gli sembrava impossibile che i vocianti e accaldati venditori sarebbero mai riusciti a smaltirle del tutto.
Ma poi il mare.
Il mare, nella sua vita precedente, era un’entità che si manifestava a luglio: una spiaggia lisciata con cura dai bagnini, file di ombrelloni perfettamente allineati, con le sedie a sdraio a fare da sentinelle al loro fianco, odore di crema solare, lieve sciabordio di un’onda gentile.
Nella nuova vita il mare era una sfera blu cobalto che occupava tutto l’orizzonte, ed era presente ovunque con il suo profumo, a volte il suo fetore, il suo movimento, il suo riflesso. Si sentiva anche dai vicoli più lontani e nascosti, e gli serviva come bussola per orientarsi nel caos delle auto e ritrovare la strada di casa la sera, quando la stanchezza aveva la meglio sulla sete di scoperta.
Ma poi il sole.
Nella pianura Padana il sole era un sogno, una lampada sfuocata dietro la cortina delle nuvole, un riflesso che si poteva immaginare alle spalle della nebbia, un chiarore caldo nelle estati afose, nascosto tra le pieghe della bruma, mentre ora era una mazzata brutale sulla pelle, un lampo che faceva socchiudere gli occhi anche d’inverno, una palla di fuoco nel cielo che rendeva incandescente la sella della sua bicicletta, e lasciava poche zone d’ombra dove trovare un poco di conforto.
Ma poi il Vesuvio.
La montagna magica, solitaria alle spalle della città, coperta da boschi fino quasi alla cima e dopo nuda, viola, spaventosa per i racconti, le foto della roccia fluida e rovente, le statue del santo che cerca di fermarlo con la mano, gli strati della lava solidificata che fa da base alle costruzioni e sembra ancora sgorgare con potenza dalle viscere della terra. È un faro: da qualunque punto lo si vede e dà certezza, ai marinai, ai viandanti ed ai ragazzini estasiati che perdono l’orientamento in un luogo che a loro sembra più incredibile di un libro d’avventure.
Amava vagabondare per le strade della sua nuova città, a piedi, in bicicletta, con uno sferragliante tram o inghiottito da una rombante metropolitana, e non si stancava di scoprire nuovi tesori buttati lì, come le mura greche davanti al conservatorio di San Pietro a Maiella, o la casina di caccia borbonica abbandonata in mezzo al lago del Fusaro.
Ma più di tutto lo affascinavano gli animali: nella sua città i randagi erano una specie estinta, lui aveva sempre visto solo animali educati e puliti, al guinzaglio o affacciati alle ringhiere dei giardini, dove a volte riposavano pigramente grossi gatti tranquilli.
Qui invece i cani si riunivano a branchi di tutte le taglie e colori, e passeggiavano tranquillamente per le vie del centro scodinzolando ai passanti e mendicando qualcosa da mangiare in concorrenza con i barboni umani, mentre i gatti erano piccole bestie selvagge, magre e sospettose, sempre pronte a nascondersi all’avvicinarsi di qualunque altro essere vivente. E poi i cavalli, che galoppavano la domenica davanti a casa sua, o gli asini, che tiravano faticosamente i carretti della verdura, gli uccellini che a diecine cinguettavano in minuscole gabbiette appese fuori dei bassi, mentre le galline becchettavano tranquillamente in mezzo alla strada.
E poi lo zoo, dove aveva trovato il modo di entrare gratis, nelle mattine in cui invece di andare a scuola dai Salesiani, scappava a far baldoria con i compagni di classe.
Decise che da grande avrebbe fatto il veterinario.
(Foto di coperina by Jordan Madrid_Unsplash)
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprenso poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è La Macchina Anatomica, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo Il Trentottesimo Elefante; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: Animal Garden e Vesuvio Felix, e una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario.
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