Come un dito nel culo
di Giovanni Renella
CAPITOLO I
Erano chiusi in quella stanza da ore e la loro conversazione procedeva secondo tempi che sembravano scanditi da un abile sceneggiatore per tenere alta la suspance.
Il commissario Iezzo conduceva l’interrogatorio e per quella volta aveva deciso che poteva fottersene del divieto di fumo.
Lui col toscanello aromatizzato al caffè e l’altro con una sigaretta arrotolata a mano producevano qualcosa di molto simile a una foschia, che si muoveva nella stanza quasi fosse un ectoplasma, capace di assumere vita propria attraverso le forme più svariate e curiose.
Lo sguardo del poliziotto si spostava dai denti, leggermente sporgenti, dell’uomo che aveva di fronte, ai rivoli di fumo che si dissolvevano nella poca aria residua dell’ambiente.
Ciò che rendeva il tutto surreale era la trama della storia che Iezzo stava ascoltando.
Preso dall’incredulità del racconto, fu richiamato alla realtà da Calabrese, l’uomo che sedeva dall’altro lato della scrivania.
«Commissà –disse con un marcato accento che ne tradiva le origini di uomo del sud– che c’è? Non ve lo aspettavate? Ancora vi meravigliate che la gente che tiene i soldi ne voglia sempre più e che se non può averli onestamente è disposta anche a fottere il prossimo? »
La domanda retorica, sparata a bruciapelo, non lo colse di sorpresa, ma lo fece riflettere sulla cupidigia di certa gente che non si accontenta mai.
«Calabrese – si riprese il commissario – a me, dopo quasi trent’anni di lavoro in polizia, non mi meraviglia più niente; ma non sono diventato cinico a tal punto da non restare almeno un po’ stupito dalle trame che l’uomo è capace d’inventare quando si tratta di fare soldi. Piuttosto, stai al posto tuo, poca confidenza e limitati a rispondere alle mie domande, che ancora non mi è chiaro come cazzo c’entri tu in questa schifezza di storia.»
Colpito dal rimprovero che non si aspettava, visto il tono confidenziale di quella che, chissà perché, pensava fosse una conversazione fra conoscenti e non un interrogatorio, Calabrese, un po’ risentito, ma senza darlo a vedere, rispose: «Giusto, Commissario, pure io mi sto ancora chiedendo come mi sono trovato in mezzo a questo impiccio.»
«Bravo – incalzò Iezzo – cerchiamo di chiarire il tuo ruolo nella vicenda, perché fino ad ora ho solo capito che nella faccenda è implicata anche tua moglie, ma non mi hai spiegato per quale motivo.»
Il richiamo al coinvolgimento della donna, con cui era sposato da quindici anni, rese ancora più cupo l’umore di Calabrese.
Nel quartiere non erano pochi gli uomini che lo invidiavano per la bellezza prorompente della moglie, che di sicuro non passava inosservata; ma ancora di più erano quelli, maschi e femmine, che si chiedevano cosa avesse trovato una donna così bella in un tipo dall’aspetto insignificante come Alfredo Calabrese, infermiere professionale presso il civico ospedale.
«Voi conoscete quella chiavica d’uomo del dottor Galasso ? – chiese Alfredo, visibilmente turbato, rivolgendosi al commissario – Quel medico, abbronzato pure in pieno inverno, che gira con l’Harley Davidson? »
«No – rispose secco Pasquale Iezzo – chi sarebbe?»
«Luigi Galasso – precisò Calabrese, per poi proseguire con un filo di voce – quello che si è portato a letto Giovanna Donati, mia moglie!»
Capitolo II
La sofferenza di Alfredo per la relazione della moglie con Luigi Galasso traspariva chiaramente dalle parole dell’uomo e il Commissario Iezzo, che non aveva ben capito se la storia fra i due amanti andasse ancora avanti, provò un moto di compassione per l’infermiere.
«Sarà per solidarietà fra cornuti», pensò Iezzo, sarcastico fino al masochismo, ricordando l’abbandono di sua moglie avvenuto qualche anno prima.
La commiserazione per Alfredo Calabrese durò giusto qualche attimo, poi il Commissario Iezzo provò a riannodare il filo del discorso: «Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine in quanto sta dicendo, anche perché la relazione di sua moglie con il Galasso, per quanto possa ferirla, non è certo un reato.»
La precisazione di Iezzo spinse Calabrese, risentito, a sollevare quello sguardo che prima si era abbassato nel confidare al Commissario il tradimento della sua Giovanna.
«Commissà – riprese Alfredo- lo so che il tradimento non è un reato, ma comunque fa male. E se ci penso, forse le corna me le sono pure meritate, perché con mia moglie ho sempre dato tutto per scontato e piano piano alle parole si sono sostituiti i silenzi, alle complicità le incomprensioni e alla fine la routine ha scavato un solco così profondo fra di noi che, quando ce ne siamo accorti, era ormai troppo tardi per provare a colmarlo; anche perché, probabilmente, una volontà vera e propria di farlo non l’abbiamo mai avuta. Le storie d’amore, Commissario – chiosò Alfredo- muoiono per afonìa.»
«Adesso abbiamo pure l’infermiere-filosofo», disse Pasquale Iezzo, visibilmente contrariato dall’essersi ritrovato perfettamente calzato nella disamina fatta da Alfredo Calabrese.
Sapeva che erano stati i suoi silenzi e il suo carattere introverso e spigoloso a spingere il rapporto con la moglie su di un binario morto; ma riconoscersi nelle parole di un estraneo, che pure parlava per sé, e dover ammettere che in fin dei conti anche lui era in parte responsabile dell’abbandono della moglie, gli procurava un fastidio insopportabile.
«Calabrese – esordì Iezzo alzandosi dalla sedia visibilmente contrariato e puntando i pugni sulla scrivania – se entro i prossimi cinque minuti non mi riassume la sua versione dei fatti, in modo chiaro e lineare, mi incazzo sul serio. Lei stasera si è presentato in Commissariato dicendo di voler denunciare una truffa perpetrata, in ambito sanitario, ai danni di centinaia di persone.»
«Data la delicatezza dell’argomento, l’ispettore preposto a ricevere le denunc e-sottolineò sarcastico Iezzo – ha pensato bene di farla parlare direttamente con il Commissario e così, fortuna mia, lei si è ritrovato a raccontare proprio a me la sua storia ingarbugliata. Ora, poiché ancora non mi è chiaro come è stata articolata questa truffa e da chi, o lei si trasforma, all’istante, nel Bignami della denuncia perfetta o io la sbatto fuori a calci nel culo.»
Messo alle strette, Alfredo fece mente locale e decise di partire dall’obiettivo della truffa: i soldi.
«Voi lo sapete quanto costa una prostatectomia effettuata con il laser privatamente?», chiese Calabrese al Commissario, e senza attendere la risposta disse: «Dai cinquemila agli ottomila euro, fra chirurgo, anestesista, fitto della sala operatoria, del laser e ricovero di quarantotto ore; l’oscillazione è alta perché varia fra l’intervento effettuato nella struttura pubblica, con la formula intramuraria, e quello effettuato in una clinica privata.»
«Caro il nostro infermiere professionale – lo interruppe ironico Pasquale Iezzo – io la ringrazio per questo suo aggiornamento sui costi degli interventi alla prostata, ma mi risulta che questo genere di operazioni siano effettuate anche a carico del servizio sanitario nazionale, sia negli ospedali pubblici che nelle strutture private convenzionate.»
«Però, vedete Commissario, – precisò sornione Calabrese – in questi casi i tempi si allungano di mesi, se non di anni, a causa di liste d’attesa chilometriche; ma se uno ha un tumore maligno alla prostata è disposto a pagare profumatamente pur di sbarazzarsene e non morire.»
«Tutto chiaro – disse Iezzo – ma non vedo dove sia la truffa: ognuno, con i soldi suoi fa quello che vuole e se sceglie di spendere una cifra blu per farsi asportare un cancro nel minor tempo possibile, non lo biasimo neppure, anzi lo capisco: in gioco c’è la sopravvivenza!»
«Certo, – replicò Alfredo dopo una breve e studiata pausa tesa a catturare l’attenzione del poliziotto – se non fosse per il piccolo, trascurabile, dettaglio che si tratta di interventi chirurgici a pagamento effettuati su pazienti sani a cui, invece, è stata diagnosticata una falsa neoplasia prostatica: Commissà, questi farabutti operano uomini in perfetto stato di salute facendogli credere che hanno il cancro!»
Capitolo III
La rivelazione di Alfredo Calabrese provocò nel commissario Iezzo una sensazione di fastidio che, anche volendo, il poliziotto non avrebbe saputo descrivere con precisione.
Nel frattempo l’infermiere aveva ripreso il racconto.
«Tutto inizia nello studio del dottor Luigi Galasso, chirurgo urologo –precisò Alfredo-. Dopo aver eseguito un’accurata esplorazione digito-rettale, Galasso diagnostica un preoccupante ingrossamento della prostata e prescrive, alla vittima di turno, il dosaggio del PSA, indirizzando il paziente presso un laboratorio di analisi di sua fiducia: ed è lì che entra in gioco il complice della truffa, il dottor Felice Buondonno. L’analista, certificando con analisi fasulle i valori anomali dell’enzima dell’antigene prostatico specifico, conferma i falsi sospetti dell’urologo e rimanda il malcapitato da Galasso; quel grandissimo figlio di puttana dell’urologo effettua, allora, un’ecografia prostatica trans-rettale, ne altera il risultato e diagnostica al povero paziente un carcinoma che non ha e il gioco è fatto: il paziente è convinto di essere in pericolo di vita a causa di un tumore maligno alla prostata, come poi sarà confermato da un altrettanto falsa biopsia.»
Il dettagliato racconto di Calabrese, che evidenziava una notevole padronanza della materia, ottenne l’effetto di catturare l’attenzione del commissario Iezzo, che l’ascoltava senza interromperlo.
«A questo punto – proseguì l’infermiere- il paziente è completamente in balìa del dottor Galasso e pende dalle sue labbra per ogni passo successivo, sorretto emotivamente dall’unica speranza di essere ancora in tempo per rimuovere il carcinoma. Così l’opportunità che gli è offerta dall’infamone, di essere operato in una clinica privata nel giro di una settimana, appare alla povera vittima come un’occasione unica da cogliere al volo, e pazienza se ci sarà da sborsare un bel po’ di soldi. Ora, provate a pensare al moltiplicarsi di questa truffa ai danni di una decina di pazienti al mese – disse Calabrese stimolando il commissario ad effettuare un rapido calcolo – Si tratta di centinaia di migliaia di euro all’anno, che si dividono quei due bastardi di Galasso e Buondonno.»
Iezzo approfittò della pausa di Calabrese per provare a mettere mentalmente a posto i tasselli del puzzle che aveva visto comporsi davanti ai suoi occhi, ma c’era ancora qualcosa che non quadrava.
Non riusciva a capire, e non era cosa da poco, come avesse fatto Calabrese a sapere della truffa messa su dai due medici; però l’interrogativo che gli arrovellava il cervello era un altro: perché Calabrese gli aveva confidato il tradimento della moglie Giovanna con Luigi Galasso?
Qual era il nesso con la truffa?
Capitolo IV
Erano da poco passate le ventitré di quell’insolito venerdì sera e il commissario Iezzo, che era digiuno dalla mattina, provò a chiamare il bar per farsi portare un paio di cappuccini e qualcosa da mangiare.
Al quinto squillo, mentre stava ormai per riattaccare, una voce di donna, resa rauca e sensuale dal troppo fumo di sigarette, gli rispose.
Mezzora dopo, Iezzo e Calabrese, rifocillati con ciò che era venuto su dalla caffetteria, avevano ripreso a fumare con maggior gusto.
«E da quanti anni andrebbe avanti questa presunta truffa?», chiese il commissario all’infermiere.
«E no, Commissà – sbottò risentito Alfredo Calabrese alzando il tono della voce – lei non mi può parlare di presunta truffa: questo è un inganno, un raggiro, una fregatura in piena regola a danno di centinaia di poveri cristi!»
«Calabrese, non si alteri; – replicò pacato Iezzo – fino ad ora, però, non mi ha fornito, non dico uno straccio di prova, ma neanche un indizio che possa confermare ciò che mi ha raccontato e farmi avviare un’indagine. Lei ha parlato di visite fasulle e false analisi finalizzate ad eseguire costosi interventi chirurgici su pazienti sani. Chiama in causa due professionisti della sanità, di cui uno, per sua ammissione, si è portato a letto sua moglie, e io non devo essere cauto e parlare di presunta truffa? Perché non dovrei pensare che si è inventato tutto solo per vendicarsi del tradimento subìto? Andiamo, Alfredo, converrà anche lei che è un po’ difficile credere a questa storia.»
Alfredo Calabrese fece per alzarsi di scatto dalla sedia, ma Iezzo, che lo sovrastava in statura di non pochi centimetri, sporgendosi dal suo lato della scrivania, allungò un braccio e gli posò una mano sulla spalla destra, costringendolo a restare seduto.
Il commissario immaginava che Calabrese, provocato dalle sue insinuazioni, avrebbe reagito scompostamente; ma quella reazione era ciò che si aspettava a conferma della credibilità di quanto ascoltato fino ad allora.
Un diverso atteggiamento gli avrebbe fatto dubitare della attendibilità dell’infermiere.
«Calma, Alfredo, – riprese Iezzo – serafico, cercando di tranquillizzare Calabrese –non sto dicendo che non le credo, ma ho bisogno che lei mi dia qualche riscontro a sostegno di ciò che mi ha detto.»
I nervi dell’infermiere cominciarono a rilassarsi e anche le vene del collo, che un minuto prima sembravano sul punto di esplodere, si sgonfiarono un po’ alla volta.
Arrotolando l’ennesima sigaretta, Calabrese stava recuperando la calma persa pochi minuti prima, mentre Iezzo, avvicinando il fiammifero acceso al toscanello, si era convinto che la moglie di Alfredo rappresentasse la chiave di volta necessaria per comprendere ciò che stesse accadendo.
E proprio da Giovanna Donati, suo marito Alfredo provò a riprendere la narrazione; non prima, però, di aver estratto dalla tasca il suo iPhone e aver mostrato al commissario alcune foto della moglie.
Le immagini ritraevano una donna sui quarant’anni, di media statura, i capelli bruni e un paio d’occhi verdi dal taglio orientale, le labbra carnose e la silhouette sinuosa: da tempo a Iezzo non capitava di vedere una donna così bella e sensuale!
«È bellissima Giovanna, vero commissario?» –chiese retoricamente Calabrese; e senza attendere una risposta di assenso, di cui neanche aveva bisogno vista l’evidente bellezza della donna, proseguì – «E quella chiavica di Luigi Galasso se l’è scopata!»
Fra i due calò il silenzio, poi Alfredo riprese.
«Giovanna ha il diploma di ragioniera e ha sempre lavorato. Mentre era impiegata altrove, un anno fa ha ricevuto una proposta di lavoro meglio retribuita da un centro diagnostico polispecialistico ed è stata assunta come contabile: lì ha conosciuto il dottor Galasso!»
V capitolo
«Galasso è uno dei soci del centro diagnostico e segue da vicino anche l’attività amministrativa – precisò Calabrese – per cui Giovanna si è trovata a lavorare a stretto contatto con lui; e, se c’era da fare, mia moglie non stava lì a guardare l’orologio e si tratteneva in ufficio anche oltre l’orario di lavoro: così penso sia stato almeno all’inizio – disse Alfredo abbassando lo sguardo – Poi con la scusa delle scadenze fiscali, dell’aggiornamento del software, delle buste paga del personale, Giovanna finiva con il trascorrere al centro diagnostico quasi ogni sabato mattina, quando la struttura era chiusa al pubblico.
È stato proprio uno di quei sabati che ho deciso di farle una sorpresa e sono andato a prenderla, a mezzogiorno, all’uscita dal centro. Ero lì, ad aspettarla, e li ho visti scendere insieme giù per le scale; non che si tenessero per mano o fossero una sotto il braccio dell’altro, ma i loro sguardi…
Commissario, se avete amato una persona, almeno il ricordo, di certi sguardi che avete scambiato con lei, non potete dimenticarlo. E in quel momento io ho visto quello sguardo negli occhi di mia moglie, ma non era rivolto a me. Mi sono sentito morire, sarei voluto sprofondare, ma lei era distante e non si è accorta di nulla. Lui sì, però. Luigi Galasso ha capito al volo che avevo colto quello scambio di sguardi fra di loro, ma invece di avere almeno la decenza di far finta di nulla, mi ha lanciato un’occhiata di sfida, come a volermi far capire che poco prima stava scopando con mia moglie!
In quel momento, commissario, ho avvertito una sensazione di fastidio insopportabile, come se qualcuno mi stesse infilando un dito nel culo! Quella merda d’uomo di Luigi Galasso voleva che io avessi la piena consapevolezza che Giovanna mi tradisse con lui, per il sottile e sadico piacere di oltraggiare chi avrebbe sofferto di più per la sua ennesima conquista. Per lui, e per quelli come lui, mia moglie e le donne degli altri non sono altro che prede, trofei di cui vantarsi con gli amici!»
Svuotato dalla veemenza di quella confessione liberatoria, che era venuta fuori come se fosse stata rigurgitata dal profondo dello stomaco, Alfredo Calabrese si accasciò sulla sedia, come se stesse per perdere i sensi.
Iezzo lo fissò per qualche istante, senza dire nulla, ma provando una gran pena per quell’uomo che aveva l’unico torto di amare ancora la moglie che lo aveva tradito.
Mentre il poliziotto si domandava come avrebbe potuto riprendere il filo del discorso interrotto, Calabrese tornò al suo racconto.
«Sono rimasto fermo, o meglio ero impietrito, mentre aspettavo che Giovanna arrivasse alla fine di quella rampa di scale, ma ho fatto finta di nulla; ho abbozzato un saluto e mi sono incamminato accanto a mia moglie verso l’auto. Non ho detto nulla, perché quando una cosa ti è chiara è inutile chiedere conferme o stare lì ad indagare.
Quel sabato mattina mi sono sentito l’uomo più solo del mondo e ho finito con l’allontanarmi ancora di più da Giovanna. Non so dirvi se in seguito mia moglie abbia avuto il sentore che io sapessi della sua storia con Galasso. Non ne abbiamo mai parlato, neanche quando quell’infame l’ha scaricata. Che fosse tutto finito l’ho capito la sera in cui è rientrata dall’ufficio con gli occhi lucidi; mi disse di essere raffreddata, ma poi l’ho sentita soffocare il suo pianto nel bagno: lui si era stancato e le aveva dato il benservito.
Commissà ma voi ci avete fatto caso a come sono strane le persone quando c’è di mezzo l’amore? Io avrei dovuto quanto meno essere sollevato dal fatto che la storia fra di loro era chiusa e che quel porco finalmente aveva smesso di mettere le sue luride mani addosso a mia moglie; e invece mi dispiaceva vedere Giovanna soffrire per essere stata lasciata! Si può essere così coglioni? O è questo l’amore? Non lo so, ma io mia moglie non l’ho mai lasciata: l’amo ancora, anche se non glielo so dire.»
Il poliziotto guardava l’infermiere che aveva gli occhi lucidi e in quello sguardo vedeva, specchiandosi, anche la sua storia, che però aveva avuto un esito diverso, con il definitivo allontanamento di sua moglie.
«Alfredo – disse con tono comprensivo Iezzo – ora, però, mi deve far capire come ha saputo della truffa.»
«Il mese scorso – riprese Calabrese – un mio conoscente è venuto nell’ospedale dove lavoro. Era molto preoccupato, perché il famoso urologo Galasso gli aveva riscontrato un sospetto ingrossamento della prostata. Poiché sta attraversando un periodo di difficoltà economiche, non potendo permettersi di andare al laboratorio del dottor Buondonno, dove l’aveva indirizzato Galasso, mi ha chiesto se potevo fargli fare le analisi gratuitamente in ospedale. Grazie al buon ufficio di qualche collega compiacente, non mi è stato difficile favorirlo, perché fra di noi ci scambiamo questo genere di cortesie.
Sta di fatto che dai controlli è emerso che il PSA era nella norma. Quando l’ha saputo, il mio conoscente era felice come una pasqua, anche perché non avvertiva alcun disturbo e solo per routine si era sottoposto alla visita di controllo.
Di quella cantonata dell’infallibile urologo ne ho parlato con Giovanna, per il solo gusto di screditarlo un po’ ai suoi occhi, ora che tutto era finito: che magre consolazioni tendono a prendersi gli uomini feriti nell’orgoglio, eh Commissà?
Giovanna mi è sembrata davvero meravigliata perché Galasso ha fama di essere un eccellente diagnostico, come dimostrano quel centinaio d’interventi alla prostata effettuati ogni anno. E in nessun caso una sua diagnosi di carcinoma alla prostata non è stata in seguito confermata dagli esami di rito, per poi tradursi in una prostatectomia, peraltro eseguita con successo: questo è quello che risultava a Giovanna dalle cartelle cliniche e dalle relative fatture che lei aveva il compito di registrare e archiviare.
A quel punto, mi è venuto il dubbio che in ospedale, per superficialità, avessero potuto commettere qualche errore con le analisi del mio conoscente, e mi sono adoperato per farlo visitare dal nostro urologo: niente, una prostata sana che più sana non si poteva! Con un’espressione di visibile soddisfazione stampata sul volto, ho riferito l’accaduto a Giovanna, confermandole che Luigi Galasso questa volta aveva toppato alla grande!
Lì per lì, mia moglie non ha commentato; poi, due giorni fa, è tornata a casa visibilmente turbata e mi ha mostrato un referto clinico trovato per caso: era finito, chissà come, sotto una scrivania, accanto al tritadocumenti. Mentre lo rimetteva a posto, ha notato che nella cartella clinica del cliente c’era un altro referto di esami eseguiti nello stesso giorno: stesso paziente, ma diagnosi opposte!
La relazione clinica trovata sotto la scrivania raccontava di una prostata sana; l’altra, conservata agli atti insieme a tanto di fattura per l’intervento chirurgico eseguito successivamente, evidenziava la presenza di un carcinoma!
Le fotocopie di entrambi i referti, sia il vero che il falso – concluse Calabrese- sono gli unici documenti che posso fornirvi come prova di quanto vi ho raccontato. Poi, stando a quanto mi ha detto Giovanna, vi dico solo che negli ultimi nove mesi le prostatectomie eseguite da Luigi Galasso sono state circa ottanta. Adesso spetta a voi provare se quelle prostate erano sane o malate: io non so altro.»
Era già notte inoltrata quando il Commissario Iezzo congedò Alfredo Calabrese invitandolo a tenersi a disposizione nei giorni a venire.
«Ah Commissà, prima di venire da voi – aggiunse Alfredo nell’allontanarsi – ho saputo che il dottor Luigi Galasso ieri pomeriggio è stato ricoverato nell’ospedale dove lavoro. Sembra che sia stato aggredito da uno sconosciuto col volto coperto e che sia ridotto molto male: pare che gli abbiano fracassato le ossa delle mani. Me l’ha detto un mio collega che era di turno al pronto soccorso, perché sa che la mia Giovanna lavora da lui. Peccato: sembra che non potrà più operare! La saluto, Commissario.»
Dalla finestra del suo ufficio, Iezzo seguì Calabrese con lo sguardo mentre attraversava la strada.
Sull’altro marciapiede il commissario intravide la sagoma di una donna che lo stava aspettando, da chissà quante ore.
Il tempo di raggiungerla e lei era già sotto il suo braccio, con la testa appoggiata sulla sua spalla, mentre s’incamminava con lui verso casa.
Nato a Napoli nel ‘63, agli inizi degli anni ’90 Giovanni Renella ha lavorato come giornalista per i servizi radiofonici esteri della RAI. Ha pubblicato una prima raccolta di short stories, intitolata “Don Terzino e altri racconti” (Graus ed. 2017), con cui ha vinto il premio internazionale di letteratura “Enrico Bonino” (2017), ha ricevuto una menzione speciale al premio “Scriviamo insieme” (2017) ed è stato fra i finalisti del premio “Giovane Holden” (2017). Nel 2017 con il racconto “Bellezza d’antan” ha vinto il premio “A… Bi… Ci… Zeta” e nel 2018 è stato fra i finalisti della prima edizione del Premio Letterario Cavea con il racconto “Sovrapposizioni”. Altri suoi racconti sono stati inseriti nelle antologie “Sette son le note” (Alcheringa ed. 2018) e “Ti racconto una favola” (Kimerik ed. 2018).