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Chi rischia di più col Covid-19 e perché

Il nostro medico Carlo Alfaro ci spiega perché la pandemia non ha colpito con la stessa intensità. Elementi di maggiore suscettibilità o resistenza

Il dottor Alfaro è Dirigente Medico di Pediatria presso gli Ospedali Riuniti Stabiesi, componente  della Consulta Sanità del Comune di Sorrento, Consigliere Nazionale di SIMA e Responsabile del Settore Medicina e Chirurgia dell’Associazione Scientificò-culturale SLAM

È tuttora oggetto di studio e dibattito tra gli scienziati il motivo della grande variabilità di prevalenza e aggressività del Sars-CoV-2, responsabile della pandemia Covid-19, in differenti aree geografiche: perché la pandemia abbia colpito duramente molti Paesi, risparmiandone relativamente altri, con differenze anche all’interno delle stesse Nazioni, come è evidente in Italia tra Nord e Sud.

Anche nel resto del mondo, ad esempio, c’è una sproporzionata differenza tra le migliaia di casi nella Repubblica Dominicana e il centinaio di casi ad Haiti, che occupa l’altra metà dell’isola, o tra l’epidemia violenta in Indonesia e molto mitigata nella confinante Malesia. Eppure, le indagini sul genoma virale non mostrano differenze significative nelle varie aree del mondo rispetto al virus originario cinese. Inoltre non è chiaro come mai, anche nell’ambito degli stessi infetti, ci sia una così ampia variabilità di espressione clinica, da forme asintomatiche o simil-influenzali a forme gravissime o letali.

La letteratura scientifica finora disponibile ha identificato alcuni elementi di maggiore suscettibilità o viceversa resistenza.

  • Età.

Tutte le casistiche dei diversi Paesi confermano che i bambini e gli adolescenti (0-19 anni) sono percentualmente meno colpiti dal Covid-19 e hanno mediamente una forma più lieve e meno letale, come risulta dalla revisione sistematica di tutti gli studi pediatrici dell’Università di Pavia pubblicata su Jama Pediatrics. Nella casistica cinese, meno dell’1% di tutti i casi riguardava bambini di età inferiore ai 10 anni, percentuale che arrivava al 2% includendo i ragazzi fino a 19 anni. I casi asintomatici sono stati nelle casistiche cinesi dal 4 al 15%, le forme con sintomi lievi o moderati il 90% in uno degli studi cinesi. I dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss), aggiornati al 14 maggio, riportano che i soggetti nella fascia 0-18 anni costituiscono in Italia l’1,8% del totale dei contagiati, e meno del 5% ha necessitato di un ricovero ospedaliero. Nello studio italiano coordinato dall’Ospedale Burlo Garofolo di Trieste, in press sull’European Journal of Pediatrics, che ha coinvolto 130 casi da 28 centri di 10 Regioni, la percentuale di bambini asintomatici o con forme lievi è del 75,4%. Pur confermando che il Covid-19 ha globalmente una minor pericolosità nei bambini rispetto agli adulti, uno studio americano, pubblicato su Journal of Pediatrics, rimarca tuttavia che anche nell’infanzia e adolescenza possono esserci, per quanto non frequenti come negli adulti, casi gravi: su 67 casi di età compresa tra 1 mese e 21 anni, poco meno del 70% (46 pazienti) è stato ricoverato in ospedale, e di questa percentuale il 28% ha avuto bisogno di cure in unità di terapia intensiva pediatrica, di cui solo uno, affetto da cancro metastatico, è deceduto. Secondo un altro studio americano uscito su JAMA, anche per i bambini, come nelle età successive, un decorso complicato è favorito dalla presenza di comorbidità: su 48 bambini Covid ricoverati in 46 terapie intensive pediatriche, la maggioranza aveva patologie concomitanti come immuno-soppressione, tumori, obesità, diabete, convulsioni, cardiopatie congenite, anemia falciforme e malattia polmonare cronica. Studi in Europa e Nord-America descrivono inoltre casi di bambini e adolescenti che, a seguito dell’infezione da Sars-CoV-2, sviluppano un grave stato infiammatorio, definito “Sindrome infiammatoria multisistemica pediatrica”, con rischio di scompenso cardiaco e danno multi-organo, mentre altri studi segnalano, in aree a maggior diffusione del virus (New York, Lombardia, Regno Unito) un aumento di incidenza della sindrome di Kawasaki, una vasculite sistemica delle arterie di piccolo-medio calibro che può danneggiare le coronarie. Assodato comunque che la pericolosità del Sars-CoV-2 è minore nei bambini e adolescenti che in altre fasce di età, resta da definire il ruolo dei bambini nella diffusione dell’epidemia. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i bambini avrebbero un rischio di infezione simile alla popolazione generale e potrebbero rappresentare un serbatoio virale. Ma gli studi al riguardo sono discordanti: mentre una ricerca cinese riporta la capacità di contagio dai bambini sovrapponibile a quella dagli adulti, e una ricerca tedesca (Dosten e collaboratori) documenta uguale carica virale nei bambini (anche asintomatici) rispetto agli adulti infetti, altri studi europei – olandese, islandese, francese e italiano di Vo’ Euganeo- e uno studio statunitense pubblicato su JAMA suggeriscono che, oltre ad ammalarsi di meno, i bambini si infettino anche di meno e siano dunque meno contagiosi. Al quesito cercherà di rispondere uno studio del National Institutes of Health, il progetto Heros, che seguirà nel tempo 2.000 famiglie con 6.000 persone di ogni fascia di età. Il contagio dei bambini avviene per lo più in ambito familiare (più significativamente nelle coorti cinese e statunitense che in quelle italiane), il che dimostrerebbe che più che untori sono vittime del contagio da parte degli adulti. La minore suscettibilità dei bambini all’infezione viene attribuita al fatto che a livello della mucosa nasale hanno un minor numero di recettori ACE-2 (enzima di conversione dell’angiotensina di tipo 2), che il Coronavirus utilizza per il passaggio all’interno della cellula. Anche la chiusura delle scuole potrebbe averli fortemente protetti, come suggerisce uno studio pubblicato su Science condotto sulla popolazione delle due città cinesi di Wuhan e Shanghai. Al contrario, i recettori ACE-2 sono più espressi nelle cellule alveolari (pneumociti) dei bambini, dove avrebbero valore protettivo contro l’instaurarsi della cascata infiammatoria. Altre ipotesi sono: una più attiva risposta immunitaria innata e linfocitaria in età pediatrica rispetto agli adulti, livelli più elevati di anticorpi contro i Coronavirus umani (responsabili di comuni raffreddori nell’infanzia), minore tendenza all’infiammazione sistemica, protezione da parte del calendario vaccinale, in particolare difterite-tetano-pertosse e morbillo-rosolia-parotite, presenza simultanea di altri virus nelle mucose del tratto respiratorio ad azione inibitoria sul Sars-CoV-2, minor esposizione al fumo.

Viceversa, l’età superiore a 65 anni renderebbe gli individui più suscettibili all’infezione, secondo uno studio osservazionale svolto in Cina nelle città di Wuhan e Shangai, e sicuramente più predisposti a un decorso più aggressivo. In Italia, l’Iss riporta che l’età media dei decessi è stata 79,5 anni. La percentuale elevata di anziani nella popolazione potrebbe rendere conto della maggiore letalità in alcuni Paesi, come il nostro.

  • Fattori genetici.

La predisposizione genetica renderebbe conto della mortalità in soggetti giovani in apparente stato di benessere fisico, e in alcune razze rispetto ad altre, esempio la caucasica. Si ritiene i soggetti più suscettibili possano avere una maggiore espressione del gene per ACE-2. Una ricerca pubblicata su Frontiers Immunology dal gruppo del prof. Antonio Giordano, docente di Anatomia patologica dell’Università di Siena e fondatore e direttore dell’Istituto per la ricerca sul cancro e la medicina molecolare di Philadelphia, suggerisce che particolari varianti genetiche del sistema HLA, che ha un ruolo chiave nel modellare la risposta immunitaria, nei cittadini del Meridione, assenti in quelli del Nord Italia, li avrebbero protetti dal Covid-19, creando una sorta di “scudo genetico”.

  • Genere.

In base ai dati raccolti nei Paesi che hanno fornito stime disaggregate di incidenza in base al genere, anche se non ci sarebbero differenze nel tasso di contagio, forme gravi e mortalità sembrano maggiori nei maschi (esclusa la fascia 0-19 anni). Tante le motivazioni ipotizzate: maggiore espressione di ACE-2 nell’epitelio respiratorio degli uomini; maggiore espressione viceversa di ACE-2 nei pneumociti delle donne (dove è protettivo) grazie agli estrogeni e alla doppia X (che ne contiene il gene); ruolo del testosterone, che se basso, come negli anziani, si associa a minor dinamica respiratoria e minor controllo della infiammazione, mentre se alto potrebbe attivare una delle proteine che serve al virus per entrare nelle cellule, la TMPRSS2; maggiore tendenza degli uomini al tabagismo e all’alcolismo, che favoriscono l’infezione e la sua gravità; più spiccata attitudine delle donne all’igiene personale; risposta immunitaria, sia innata che adattativa, più pronta ed efficace nelle donne; testicoli come serbatoio del virus (trovato nel liquido seminale): i testicoli sono assieme ai polmoni tra gli organi che mostrano una maggiore espressione del recettore ACE-2.

  • Comorbidità.

Tutte le casistiche dimostrano che gravità del decorso e letalità correlano con le malattie pre-esistenti.

  1. Ipertensione arteriosa. L’ipertensione (anche isolata) è una delle comorbidità di riscontro più frequente nei casi più gravi e con esiti peggiori. Poiché molti ipertesi sono trattati con ACE-inibitori, si era temuto che l’uso di questi farmaci potesse favorire la malattia, ipotesi smentita dagli studi.
  2. Patologie cerebro- e cardio-vascolari. Una sottostante malattia cardiovascolare o cerebrovascolare costituisce un elemento prognostico sfavorevole per complicazioni e/o di morte (come anche in caso di SARS, MERS e la stessa influenza).
  3. Diabete mellito. I pazienti diabetici sembrano ammalarsi più facilmente, e avere un decorso più grave e fatale in caso di diabete mal controllato. Il virus potrebbe esercitare un danno diretto alle insule pancreatiche. L’età avanzata, il sesso maschile e una storia di diabete sono, secondo uno studio, principali fattori predittivi di intubazione tra i pazienti con Covid-19.
  4. Patologie polmonari. Benché le malattie polmonari croniche siano un fattore di rischio per decorso più importante, l’asma, secondo lo studio pubblicato sul Journal of Allergy and Clinical Immunology da un gruppo di ricercatori USA, sarebbe un fattore protettivo da forme gravi, forse per una correlazione inversa tra sensibilizzazione allergica ed espressione dell’ACE-2.
  5. Obesità. Dagli studi europei, piuttosto che da quelli cinesi, l’obesità emerge quale importante fattore di rischio per Covid grave, con correlazione tra grado di obesità e gravità, in rapporto probabilmente a compromissione respiratoria e alto livello di infiammazione associate all’obesità.
  6. Malattie epatiche e renali croniche. Sono fattori di rischio per sviluppare forme gravi di Covid-19.
  7. I soggetti con patologia congenita o acquisita o in trattamento con farmaci immunosoppressori sono popolazioni a maggior rischio. Studi in trapiantati non hanno invece confermato un maggior rischio, anzi sembrerebbe che la immuno-regolazione in questi pazienti potrebbe essere un fattore protettivo nei confronti dell’iper-infiammazione sistemica.
  8. Da uno studio pubblicato su JAMA Oncology emerge che i bambini affetti da patologie oncologiche non sono più soggetti all’infezione Covid-19 o a forme più gravi, oltre a confermare una bassa infettività dei bambini verso i contatti familiari. Non così gli adulti con cancro, che hanno un rischio aumentato di sviluppare una forma grave con letalità del 13%, secondo il rapporto del Covid-19 and Cancer Consortium (CCC19) apparso sul Lancet.
  • Inquinamento ambientale.

In Italia le Regioni più colpite sono quelle che fanno registrare abitualmente le maggiori concentrazioni degli inquinanti atmosferici (PM10, PM2,5, NO2, benzene, O3). Uno studio non ancora revisionato (preprint) riporta il ritrovamento del materiale genetico del virus Sars-CoV-2 sul particolato PM10 raccolto da 34 campioni d’aria nella provincia di Bergamo: non si sa però se queste particelle siano in grado di diffondere il contagio. Uno studio della Società italiana di medicina ambientale ha evidenziato una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 (50 microg/m3 di concentrazione media giornaliera) e il numero di casi di infezione da Covid-19 in Pianura padana, esattamente con gli intervalli previsti dall’incubazione del virus. Anche lo studio condotto dall’Università di Harvard conferma l’associazione tra decessi per Covid-19 e le concentrazioni di PM2,5 sul territorio degli USA. Le ipotesi di queste correlazioni sono che l’inquinamento atmosferico possa aumentare l’espressione dei ACE-2, o che il particolato eserciti un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia, fungendo da carrier per il trasporto dei virus, come dimostrato in altre epidemie (influenza, morbillo), o che, inficiando la funzione dei macrofagi alveolari, cellule in prima linea nelle difese dei polmoni, favorisca il danno da Coronavirus.

  • Clima.

Secondo l’ipotesi elaborata dai ricercatori dell’Università del Maryland, c’è un filo che lega le principali zone di diffusione epidemica del nuovo Coronavirus: la metropoli cinese Wuhan, i focolai lombardi, la zona di Qom in Iran, la sudcoreana Daegu, Tokyo, Seattle, Londra, Parigi, Madrid: analogie di latitudine (fascia compresa tra 30 e 50 gradi a Nord, cosiddetto clima subtropicale umido), temperature medie registrate (tra i 5 e gli 11 gradi centigradi, mentre sarebbero meno ospitali per il virus aree più fredde, come Russia e Canada, o più calde, come l’Africa), umidità (tra il 67 e l’88 per cento). Uno studio ancora non pubblicato del Gruppo di esperti sul “Rischio Climatico” della Società Italiana di Geologia Ambientale (Sigea) non ha tuttavia trovato influenza sulle cariche virali nei tamponi di temperatura minima e massima, umidità relativa media, direzione e velocità del vento, ma solo della radiazione solare, che accelererebbe la neutralizzazione del virus nell’ambiente.

  • Stili di vita e abitudini.

Uno studio osservazionale francese non ancora revisionato ha rilevato che solo il 5% dei pazienti Covid-19 è composto da fumatori, da cui si è supposto che la nicotina possa avere un effetto protettivo contro la malattia. In realtà, in base all’analisi degli studi scientifici finora disponibili revisionato dall’Oms, il fumo favorisce invece la diffusione del virus e aumenta il rischio di sviluppare complicanze: un terzo dei fumatori ha complicazioni polmonari e una probabilità doppia di avere bisogno di terapia intensiva. Anche l’alcol favorisce l’infezione da Covid-19 per effetto immuno-soppressorio, riduzione del tono orofaringeo e danno dei macrofagi alveolari. Infine, alcune abitudini culturali, soprattutto nei Paesi asiatici, risultano protettive rispetto al mondo occidentale: salutarsi a distanza senza darsi la mano o abbracciarsi, uso delle mascherine igieniche, minori flussi turistici e trasporti pubblici.

  • Attività sportiva.

Uno studio dell’Iss, pubblicato come pre-print, ha elaborato un modello di previsione secondo cui l’esito della malattia si decide nelle prime 2 settimane dal contagio e dipende dal bilancio tra la dose cumulativa di esposizione virale e l’efficacia della risposta immunitaria. Il virus può determinare una forma grave se: l’immunità innata è debole (anziani; immunodepressione) e/o l’esposizione cumulativa al virus è enorme (medici e operatori sanitari) e/o si compie un esercizio fisico intenso e/o prolungato, con elevatissimi flussi e volumi respiratori, proprio nei giorni di incubazione immediatamente precedenti l’esordio della malattia, facilitando così la penetrazione diretta del virus nelle vie aeree inferiori e negli alveoli.

9)  Liberazione di citochine.

Siccome il rilascio di interleuchine è considerato uno dei principali meccanismi dell’infiammazione sistemica nelle forme gravi, sarebbero più a rischio soggetti predisposti a un loro maggior rilascio, quali uomini dopo i 60 anni, persone con più grasso viscerale (l’IL6 è prodotta anche dagli adipociti maturi), persone con attività fisica intensa (il rilascio è favorito dalla contrazione muscolare).

10) Presenza di trombofilia.

La tromboembolia venosa generalizzata è uno dei meccanismi in gioco nelle forme gravi e letali: pertanto, la presenza di mutazioni e polimorfismi trombofilici potrebbe essere un importante fattore di rischio e potrebbe spiegare l’exitus dei pazienti giovani e/o apparentemente privi di comorbilità.

  • Carica virale.

A determinare l’aggressività dell’infezione sarebbe la carica virale, che aumenta quando si concentrano molti pazienti in poco spazio, come nelle diffusioni ospedaliere o nelle residenze per anziani. Un’aggressione virale massiva determina la crisi del sistema immunitario e lo scatenamento della iper-infiammazione, oltre che una potente contagiosità, creando un circolo vizioso che è possibile interrompere solo con il lockdown.

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