Il Racconto, Granatello
di Lucio Sandon
Da un manuale turistico del 1750: Granatello: ameno casale dipendente dal borgo di Portici, in riva al mare, poco più di tre miglia a scirocco da Napoli. Quivi stanno deliziosi casini di campagna, tra i quali uno fattovi edificare dal principe di Lorena, Emanuele d’Elbeuf, che in tale occasione scoprì la sepolta città d’Ercolano. Passeggiata incantevole, la quale può farsi in meno di due ore in vettura: vi è un luogo amenissimo, quasi lingua di molo, ove si può passeggiare, o far colazione sul mare. Pochi passi discosto vi è un luogo detto le Mortelle, ove esiste un piccolo tratto di parterra naturale, nel quale uno può sdrajarsi a piacere, o farvi una ricreazione qualora si amino tali campestri delizie.
Attorno all’anno 1530 si stabilì a Portici il nobile calabrese Bernardino Martirano, letterato e avventuriero. Era stato segretario del viceregno e investì le sue ricchezze nella costruzione di una fantastica villa a Pietrabianca, verso la spiaggia del Granatello. Essa era punteggiata di statue antiche, immersa nel verde di fronte a un panorama mozzafiato, e con un ninfeo strepitoso : un portico decorato da migliaia di conchiglie marine e un pavimento di marmo dotato di piscine per immergersi nell’acqua calda della vicina sorgente di acqua termale derivante dal fiume Sebeto. Villa Leucopetra ospitò nel 1535 il re di Napoli Carlo V, che vi si fermò per diversi giorni: pescò nel mare del Granatello e andò a caccia nel bosco delle Mortelle e sulle falde del Vesuvio.
L’imperatore, soddisfatto del soggiorno, donò a Martirano un crocifisso scolpito con cruenta precisione da Giovanni da Nola, che fu posto nella cappella: il crocifisso ha una strana caratteristica, un alluce del cristo appare come ritirato nel legno: la leggenda vuole che sia il segno di un miracolo: il dito era stato avvelenato da un rivale del Martirano, dimodochè egli baciandolo con devozione, ne morisse, ma il Redentore sottraendolo al devoto bacio del mecenate, ne impedì la morte.
Della grandezza di Villa Leucopetra rimane una lapide accanto al portone, con una simpatica scritta sbiadita dal tempo e incisa in latino maccheronico e di difficile traduzione.
Viator Veni Vide Varias Vicissitudines Volubiles Vitae Vanitates Vesustissimus Venustissimus Vixi Vesevus Virentissimus Vernantissimus Validissimis Viris Vberrimus Vbi Vero Vindice Vniversa Vientis Voluntate Viscera Vomui Vulcania Vndosa Virulenta Voraginosa Valde Velociter Viros Voravi Vndique Vineta Vierta Vicinas Vrbes Villa Vastavi Vellem Videns Vltricem Vindictam Vitares Vltimam Ventris Veneris Vacuus Voluptatibus Veram Vniversi Vitam Verendo Venerando
Oggi ciò che rimane della splendida costruzione viene detta Villa Nava, e l’antica opulenza è irriconoscibile: per un lungo periodo dopo il terremoto dell’ottanta, come altre ville antiche, è stata occupata da interi gruppi famigliari, più o meno malavitosi, che ne hanno fatto strame.
Enormi Honda e Yamaha, lussuosi giubbotti di pelle, anelli d’oro e rayban neri. Le moto si accostarono rombando e i giovani centauri entrarono in gruppo:
«Chi è il veterinario?»
Alessandra e Marisa si scambiarono uno sguardo e contemporaneamente indicarono il titolare con un dito e con un movimento della testa…Lui.
Lui, che invece stava per sollevare il dito verso di loro, ci ripensò: va bene, se deve succedere è meglio che sia io, loro sono così giovani.
«Veterinario, avete paura di curare una tigre?»
Sospiro di sollievo… «No- disse lui- Non ho problemi particolari.»
«Allora dovete venire con noi subito perché è urgente, e a casa tutti hanno paura di prenderla per portarla qui.
«Ma, Con voi… Sulla moto?»
«Dottò, mica avete paura?»
«No, e di che? Se non mi fa paura la tigre, figurati un giretto in moto, però vai piano eh, aspetta che prendo il casco.»
«Niente casco dottò, dove dobbiamo andare se vi presentate con il casco, credono che siete un killer e vi sparano senza pensarci due volte.»
Andiamo bene. Padre, figliolo, spirito santo, ma perché proprio a me, con tutti i veterinari che ci sono in giro?
Per andare da Torre del Greco a Portici si percorre una strada lunga circa sei chilometri tutta dritta, chiamata Miglio d’Oro perché fiancheggiata da una serie quasi ininterrotta di magnifiche ville settecentesche costruite dai nobili dell’epoca in modo da stare vicino alla reggia estiva dei Borbone.
Certo venti minuti sono tanti per fare sei chilometri, ma con il traffico ci vuole pazienza, e alle sei di sera il caos è al suo apice: macchine, motorini, motocarri, carretti, cavalli, carriole, camion, cani randagi, autobus, filobus, gente a piedi, venditori ambulanti, frotte di turisti, frotte di borsaioli, frotte di sfaccendati.
Le moto sfrecciarono rombando e saltando sui marciapiedi, accelerando e frenando bruscamente, evitando per un pelo passanti e vigili urbani attoniti e impotenti, bruciando semafori rossi, stop e qualunque altro segnale violabile mentre il veterinario con gli occhi chiusi con una mano si aggrappava al folle centauro e con l’altra stringeva al petto la sua borsa d’ordinanza, e, mentre affidava la sua anima al diavolo, recitava una novena di bestemmie rivolte contro tutte le divinità ed i relativi martiri, ma soprattutto contro sé stesso e la malasorte, il tutto per un tempo che a lui sembrò infinito, ma che si risolse invece in meno di cinque minuti.
Le moto si bloccarono bruscamente davanti al chiosco di acqua fresca che sorgeva abusivo davanti a villa Nava, un’occhiata di intesa con alcuni avventori che sembravano tifosi impegnati in una discussione sulla locale squadra di calcio ma invece erano attenti guardiani della sicurezza del boss, poi via dentro l’enorme portone che si aprì senza bisogno di telecomando, e si richiuse alle loro spalle con un lugubre cigolìo.
Il malefico motociclista spense il motore, scese con un agile balzo e diede una leggera scossa al passeggero che sembrava pietrificato sul sellino.
«Dottò, dottò… Siamo arrivati!»
Lui, cautamente mise il piede a terra, incredulo di essere ancora vivo e tenendosi al braccio del delinquente scese dalla moto, che dava anch’essa segni di sofferenza scricchiolando con insistenza come se volesse sgretolarsi.
A quel punto pensava che la visita della tigre fosse il pericolo minore, ma non aveva calcolato l’incontro con il padrone di casa, don Raffaele ’o Sparatore, il cui soprannome era già una garanzia: alto un paio di metri, biondo e occhialuto, non aveva l’aria pericolosa ma la sua fama bastava a terrorizzare il malcapitato dottor Gardenia.
«Dottò, salvatemi quella povera bestia, il vostro collega qui vicino le ha messo una fasciatura ma lei se l’è mangiata, e a dirvi la verità a me sembra che quello non abbia capito niente! Non bado a spese, ma non voglio sentire brutte notizie. Buona sera.»
Il gelo calò nella mente del dottor Gardenia, offuscandogli la capacità di connettere, ma quando entrò in quello che era stato l’antico ninfeo, ora divenuto un box per i cavalli dei camorristi, la sua espressione cambiò all’istante: seduta mollemente su un banco di legno rialzato, adagiata su di un tappeto persiano autentico, riposava una tigre del bengala di circa quattro mesi, che non appena udì il fruscio delle persone che entravano con il dovuto rispetto, sollevò la testa regale e spalancò i suoi tranquilli occhi gialli fissando gli intrusi come per valutarne la morbidezza delle carni, sbattendo lentamente le palpebre.
Il nobile animale aveva la zampa posteriore destra piegata con angolo innaturale ed una lurida fascia ricopriva malamente l’arto. Si avvicinarono, il veterinario per visitare la belva, e il guardaspalle per controllare il veterinario, mentre la tigre (Shere Khan, nella sua testa la chiamava già così) come per farsi aiutare, si poggiò delicatamente su un fianco. Il medico, allungò la mano per asportare la sporca fasciatura, ma non appena toccò la tela, da sotto le sue pieghe sbucò un enorme ragno nero che cominciò a zampettare lungo la mano dell’uomo bloccato dal terrore, ma prima che un infarto privasse il mondo di uno dei suoi figli migliori, la tigre con un preciso colpo della lunga coda, fece volare l’immonda bestiaccia via dal braccio del suo nuovo amico, poi lo guardò fisso negli occhi come per dirgli: “Guardami bene, ti ho salvato la vita, portami via di qui e salva la mia!”
«La tigre si deve ricoverare, c’è una frattura scomposta della tibia, poi questa pancia così gonfia non mi piace.»
«Dottò vi accompagnamo con la moto?»
«Ma nemmeno per sogno! Questa povera bestia non può subire scossoni (e il cuore del veterinario non sopporterebbe un altro rally cittadino) telefoniamo in ambulatorio così faccio venire la collega con il furgone.»
Per telefonare era necessario salire all’abitazione di don Raffaele, al piano nobile della villa occupata, servendosi di un meraviglioso scalone semicircolare che portava ad un largo corridoio dal quale si accedeva alla cucina, dove il freddo dell’autunno inoltrato lasciava posto ad un confortevole calduccio creato da un fuoco che ardeva in un enorme camino di marmo, mentre donna Concettina la moglie del boss era intenta a rimescolare un padellone da dove proveniva un profumo da capogiro.
«Accomodatevi, favorite dottore, i ragazzi mi hanno portato un po’ di roba dal porto, così ho organizzato una zuppetta di pesce, ma se Raffaele non mangia la pasta poi brontola tutto il giorno, allora ho usato un po’ del sugo della zuppa per condirla. Favorite di mangiare con noi, non fate complimenti!»
E fu così che dopo una breve telefonata allo studio per dare l’indirizzo, il dottor Gardenia si trovò a arrotolare linguine, rosicchiare scampi ed a succhiare frutti di mare a tavola con una masnada di assassini.
«Ancora un polipetto? Pasquale, non ti fregare tutto il sugo e passa il pane al dottore, aspetti che le verso un po’ di vino.»
Marisa sopraggiunse dopo poco più di mezz’ora, e lui dovette rinunciare ad un’altra porzione di scarola imbottita con olive, capperi, acciughe e pecorino, per accompagnare la bruna collaboratrice con il suo eterno mozzicone tra le labbra, guidando il furgone a retromarcia verso il ricovero di Shere Khan, mentre quattro malfattori affascinati dalla dottoressa trasportavano con estrema delicatezza lo splendido animale usando come barella improvvisata un giaccone di montone di una nota marca veneta che provvidero a sistemare con attenzione, circondandolo di balle di paglia pulita onde proteggerlo dagli scossoni del viaggio.
«Dottò, siamo nelle vostre mani!»
Un brivido percorse la schiena del veterinario, e i gamberetti minacciarono di ritornare sui loro passi.
All’arrivo in ambulatorio, mentre le ragazze si occupavano di accertarsi delle condizioni del cucciolo, il titolare andò ad accertarsi delle condizioni del giaccone rimasto nel furgone, e stabilito che non presentava lesioni di sorta ed era anche della sua taglia, il dottor Gardenia si precipitò a ricoverarlo con urgenza presso la lavanderia lì vicino, raccomandando un lavoro accurato, perché il capo era di lusso e meritava ogni rispetto, tanto che venne indossato con orgoglio per molti anni ed identificato confidenzialmente come “Il montone di Shere Khan”.
La bestiola venne operata il giorno seguente: aveva ingoiato un’intera fascia di garza che le si era bloccata nell’intestino tenue, e che venne asportata chirurgicamente, dopodiché venne risolta la frattura della tibia con piastra e viti, e la sera stessa la tigre era in grado di alzarsi da sola. Dopo una breve trattativa telefonica con la dil< ui consorte, Shere Khan venne ricoverata a casa del veterinario, diventando in breve la miglior compagna di giochi per i figli. Dopo un paio di mesi la tigrotta era perfettamente guarita e vispa, vaccinata come un gatto e ripulita da un bagno profumato, e pronta per andarsene a casa. Chi non era pronto al distacco era il suo veterinario, che si era ormai affezionato allo splendido animale e traeva un senso di tranquillità e di forza dall’osservare quegli occhi profondi e tranquilli che riflettevano coraggio e saggezza, ma alla fine fu costretto a telefonare a villa Nava.
Il giorno dopo si presentarono i soliti motociclisti dementi con la pretesa di trasportare la tigre in braccio come un cagnolino, ma la fiera, non appena udì il rombo della Yamaha si divincolò e balzò a terra correndo verso il sogghignante veterinario, lasciando l’indelebile marchio delle sue unghie sulla mano di Totonno ‘o Basista (il cui soprannome venne modificato da quel momento in Totò man‘e forbice)
«Ve la porto io… »
Sher Khan salì docilmente sul furgone azzurro che si diresse mestamente verso il Granatello. Don Raffaele era uscito, così la tigrotta venne consegnata nelle mani del suo vice, Pasquale ‘o Chiattone, il quale, dopo aver fatto le feste alla tigre, che per la verità stava un po’ sulle sue, prese sottobraccio il medico e lo portò a fare due passi in giardino.
«Dottò, vi devo dire la verità: noi ci credevamo che la tigre moriva, vi abbiamo chiamato solo perché non sapevamo dove buttarla dopo morta, ma voi avete fatto un miracolo, mi dovete dire solo quanto vi deve mandare don Raffaele!»
A questa domanda il giovane rimase un po’ spiazzato: per esperienze precedenti sapeva che spesso questo tipo di clienti tendeva a soprassedere al pagamento della parcella o addirittura saldava mediante oscure minacce di sfracelli in caso di insistenza, e non aveva nemmeno pensato a quantificare le sue prestazioni. Gli tornò così alla mente la conversazione avuta la sera prima a tavola con la moglie, si discuteva sullo stipendio mensile di un direttore di banca: due milioni di lire sembrava loro un compenso notevole, e così dovendo dire una cifra, se ne uscì con “Due milioni” e si girò a guardare Pasquale, il quale senza accusare il colpo restituì lo sguardo al dottore.
«Riferirò.» Poi girò le spalle e risalì lo scalone monumentale.
Il dottor Gardenia risalì sul vecchio furgone, salutò le guardie armate e si diresse verso il porto, a guardare i pescherecci che rientravano.
Dopo un paio di giorni, verso l’ora di chiusura serale, trasalì nell’udire il rombo delle potenti motociclette che si bloccavano fuori dell’ambulatorio e trattenne il fiato udendo la voce ormai nota del Chiattone che lo chiamava: «Dottò, qua ci stanno i soldi vostri, li volete contare?»
«No, mi fido.» (e ci mancherebbe altro) Il pacco era alto almeno venti centimetri, avvolto in foglio di giornale e conteneva una risma di biglietti da cinquemila lire.
«Buona sera dottò.»
«Buona sera Pasquale, ringrazi don Raffaele da parte mia. Se mi porta il codice fiscale gli faccio la fattura.»
«Niente fattura dottò, saluti da Don Raffaele, e un abbraccio dalla tigre!»
I soldi erano giusti, fino all’ultima lira.
(Foto di copertina: Crocifisso della chiesa del SS Salvatore, by Carmine Cetara)
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.
Altri racconto di Lucio Sandon:
https://wp.me/p60RNT-3mU